articolo su Vito Santangelo scritto da Placido Sergi
"La mia vita di cantastorie" di Vito Santangelo di Mauro Geraci Editore Grafo Brescia, pag 175, 2006 (scritta dopo una lunga chiacchierata autobiografica con Vito Santangelo)
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La vita di Vito Santangelo
raccontata da PLACIDO SERGI in un articolo in Internet http://www.paternogenius.com/pagine/Placido%20Sergi/pagine/TraTradizione%20e%20personalit%C3%A0%20nei%20cantastorie%2060.htm
Nato il 10 agosto 1938, Vito Santangelo è il più giovane dei cantastorie di Paternò. Contrariamente a quasi tutti i suoi colleghi, ha seguito un regolare corso scolastico ed ha ottenuto la licenza elementare.
Santangelo, che faceva il bracciante, si accostò al mondo dei cantastorie attraverso la musica leggera; infatti, spesso da ragazzo, quando sulle piazze di Paternò capitava qualche gruppo di canzonettisti, si offriva di cantare come dilettante qualche canzone.
In seguito, all'età di 17-18 anni, iniziò la sua carriera di cantastorie assieme a Paolo Garofalo e, girando con lui, apprese sia la tecnica dei versi (1), sia quella della chitarra (ma Santangelo era stato anche per un mese a scuola di chitarra da un maestro di musica di Paternò).
Nel 1957, quando ancora girava con Garofalo, si recò a Gonzaga per il primo Congresso Nazionale dei Cantastorie; quell'anno fu vincitore Busacca. L'anno successivo, ad appena 20 anni, benchè fossero presenti sia Busacca che Orazio Strano, Santangelo fu proclamato
« Trovatore d'Italia »; nel 1964 fu di nuovo proclamato « Trovatore d'Italia », ma con una « storia » di Buttitta. La serie dei premi conseguiti da Santangelo si chiude con un terzo posto che egli ha ottenuto nel recente concorso di Palermo, avente come tema l'arrivo del primo uomo sulla luna; egli però cantò una storia di Buttitta, benchè in precedenza ne avesse preparata una sua.
Santangelo, che ha anche partecipato a spettacoli teatrali, durante le sue esibizioni in piazza usa spesso il play-back e ne è accanito difensore.
Intorno a questo sistema è sorta, nell'ambiente dei cantastorie paternesi, una polemica, poichè il play-back favorisce coloro che spacciono come propri i dischi incisi da altri.
Alcuni cantastorie, come Rinzino, si servono abitualmente del play-back, mentre Busacca mi ha dichiarato polemicamente che, finchè avrà voce, sarà lui a cantare sulle piazze. D'altra parte Santangelo pensa che fare ascoltare i dischi sia una necessità, perchè, dovendosi vendere i dischi, sono proprio questi che il pubblico vuole ascoltare, piuttosto che la viva voce del cantastorie; il pubblico, insomma, vuole controllare la merce che sta per comprare.
Naturalmente il cantastorie deve accompagnare la « storia » con le spiegazioni in prosa e con la mimica; inoltre Santangelo, per esempio, a volte canta lui stesso in piazza, ma per una sua soddisfazione e per tenersi in esercizio, non perchè sia conveniente: dopo la sua esecuzione, egli deve fare ascoltare di nuovo la « storia » incisa sul disco.
Le « storie » di Santangelo trattano sempre di una « offesa » che viene lavata con uno o più omicidi.
Santangelo stesso ha colto con acutezza il motivo per cui le « storie » di questo tipo sono gradite al pubblico.
Anche se il popolano nella vita non ama il delitto, egli spesso è costretto a subire delle ingiustizie; quindi gli piace ascoltare una storia in cui la giustizia trionfi, chi ha ragione abbia la meglio.
In fondo, è ciò che Gramsci ha detto, evidentemente in ben altri termini, sulla fortuna del romanzo d'appendice tipo « Conte di Montecristo» (2). In questo caso il pubblico dei cantastorie ammette l'omicidio, anzi lo vuole, lo esige; se una storia finisse, per esempio, col perdono della moglie fedifraga, probabilmente non avrebbe successo.
Il pubblico rifiuta l'omicidio se esso è stato commesso per danaro.
Naturalmente, anche se l'eroe si è vendicato giustamente, deve essere punito per il male che ha fatto: o finisce in carcere (e spesso nel carcere muore di pena), o si suicida o muore di morte violenta.
Le « storie » di Santangelo si presentano formalmente più compatte di quelle di altri cantastorie paternesi; non vi sono infatti « seconde voci » e « canzuna ».
Ma Santangelo spesso si abbandona a commenti e a descrizioni. Si vedano, ad esempio, nella « storia » « Lu figghiu carnifici », le due sestine che commentano il matricidio che Turiddu, l'eroe della « storia », dovrà poi vendicare:
La matri è una, e campa 'nta li spini
e di la vucca si leva lu pani
ppi darlu a li so figghi, e'nta li vini
sangu non n'havi e penza all'innumani
comu a li figghi putiri sfamari
e si distrudi ppi farli campari.
La matri non si pò mai scurdari,
ca'ppi li figghi simporta turturi;
perciò li figghi gioia ci-ana-ddari,
pirchì la matri è lu cchiù granni amuri...
Naturalmente questi indugi sono molto pericolosi in quanto rischiano di sviare l'attenzione del pubblico.
Eppure, quasi per contrasto, Santangelo ha saputo creare in molte sue « storie » una notevole « suspence », che si può, ad esempio, notare in questa stessa storia di « Lu figghiu carnifici » e in « Barbara Pinu ».
Santangelo è forse l'unico dei cantastorie di Paternò che abbia saputo sollevare la cosiddetta « barzilletta » dai facili doppi sensi sessuali all'espressione di un notevole contenuto satirico. Tipica in questo senso è « Lussu e cambiali », caratteristica espressione di uno spunto antifemminista: le donne, con le loro spese pazze, conducono alla rovina il povero marito.
Il motivo ha avuto successo, se Santangelo ha creato « Lu latru ppi lussu e cambiali », in cui il marito va a finire in galera sempre per pagare i capricci della moglie
Naturalmente nel repertorio di Santangelo non mancano le solite scenette a base di doppi sensi, come « L'autisti d'oggi », che riprende uno spunto già usato dai cantastorie settentrionali (3). Alcuni versi di « L'autisti d'oggi » sono finiti senza alcun mutamento in « La guerra di l'autisti », così come alcuni versi di « Lussu e cambiali » si ritrovano in « La giuvinutù muderna »; il che dimostra come queste composizioni siano in genere considerate cose minori e di poco conto.
Molte « storie » di Santangelo presentano incertezze e qualche lieve incongruenza; con ogni probabilità, egli deve ancora dare il meglio di sè.
Una delle composizioni più interessanti di Santangelo è « La storia di Barbara Pinu », in quarantuno sestine di endecasillabi; risale al 1957 e la vicenda di essa è fantastica. La composizione si apre con il richiamo al pubblico (anche Santangelo non usa mai la « protasi » d'argomento religioso):
Quannu mi fermu, prestu mi priparu,
l'artuparlanti appizzu nta lu muru
e cantu n-fattu ccu lu sciatu amaru,
ca rimuddari fa lu cori duru;
e suddu mi scutati, o me signuri,
vi raccuntu stu fattu di duluri.
Subito dopo, Santangelo ci presenta la protagonista della vicenda, Barbara Pinu, una povera orfanella che vive con la nonna. Una notte, le appare in sogno la madre che le detta una schedina del totocalcio. Barbara, giocata la schedina, vince puntualmente parecchi milioni; grandissima è la gioia sua e della nonna:
So nanna di la gioia no raggiuna,
ma Barbaredda chiangeva, la mischina;
pinsannu a so matruzza e a la furtuna,
si cummuvivu dda figghia curina.
So nanna cci diceva: « Gioia mia,
non ciangiri; cca ci voli alligna ».
Barbira dissi: « Sì, nannuzza mia,
iu chiangiu, pirchì provu tanta gioia;
nanna, iu Vogghiu stari nsemi a ttia,
pirchì luntanu, sula, sentu noia ».
C ussì Barbira Pinu divintau
ricca, e lu palazzu s'accattau.
Barbara, quindi, ha realizzato il sogno delle classi povere con l'acquisto di una casa.
Ma un suo cugino, attirato dal danaro, comincia a insinuarsi nell'animo di lei; infine, divenuto suo fidanzato, le ruba l'onore e il danaro e fugge in Francia. La nonna scopre il furto e Barbara corre a denunciare il malfattore:
Povira figghia, mmenzu lu duluri
lu furtu prestu va a denunziari;
lu marisciallu ccu tantu fururi
certu ca fici chiddu ca potti fari;
ma ddu vigliaccu, vili, scialaratu,
lu nomu e lu cugnomu s'ha cangiatu.
Tutte le ricerche sono, quindi, vane, ma un giorno un amico, che torna dalla Francia, informa Barbara di avere visto il malvagio cugino che ora è proprietario di una sala di toletta.
Barbara, truccatasi « di vecchia », va in Francia, si reca nella sala di toletta del cugino e si fa fare la permanente:
Lu sangu ci ugghieva ddi mumenti,
pinzannu ca dda c'era ddu birbanti,
ma, quannu tirminò la pirmanenti,
si priparò e si livò li nguanti.
Dopu ci dissi: « Quant'ha-pavari,
ca iu vi dugnu quantu v'aie-ddari ».
Ddu dilinguenti, friscu a lu parrari,
dissi: « E' na pirmanenti di signuri,
su cincucentu franchi ca m'ha-ddari ».
Barbara dissi: « Pavimi l'onuri! ».
Il vile cugino riconosce Barbara e le chiede pietà, ma essa, estratta una pistola, lo uccide. Viene arrestata e processata, ma il suo « delitto d'onore » trova comprensione presso i giurati che la condannano a pochi anni di carcere; essa muore però ugualmente di pena e di dolore prima di potere scontare la condanna:
Chiangennu notti e ghiornu, criatura,
e non mangiannu di iurnati nteri,
mischina, ci finiu n-sipultura.
Cchi funirali, quanta genti c'era!
Appi fortuna e svintura macari
e a so matruzza n-celu iu a truvari.
La « storia » fu composta agli inizi della carriera del nostro cantastorie, e, quindi, presenta qualche incongruenza e ingenuità; per esempio, il modo con cui Barbara viene a conoscenza del rifugio del seduttore e quello con cui riesce ad introdursi presso di questi (truccata da vecchia!); senza contare che non si dice se il processo è avvenuto in Francia o in Italia (in Francia era riconosciuto il delitto d'onore come esisteva nella legislazione italiana? e il processo per un omicidio avvenuto in Francia può essere celebrato in Italia?). Tra l'altro, e questo dimostra l'incertezza dello stesso autore su questa composizione, in una successiva incisione su disco Santangelo ha ridotto le dimensioni della « storia », eliminando parecchie sestine.
Comunque, l'amaro significato sociale che questa vicenda assume (la ricchezza può portare solo sventure e dolori) e la triste fine della protagonista conferiscono un indubbio fascino a questa « storia » semplice e lineare.
Naturalmente le indecisioni dell' autore scompaiono con il tempo; più coerenti sono le « storie » posteriori a questa, come « Lu figghiu carnefici » o « La matri assassina », la composizione con cui Santangelo vinse la « Torre d'oro ».
Vorrei però soffermarmi soprattutto su una composizione del nostro cantastorie risalente al 1964, intitolata « La storia di Micheli Valenti », poichè essa è una delle pochissime opere dei cantastorie di Paternò in cui non sia presente il delitto d'onore.
La « storia » si inizia con l'invito agli ascoltatori:
Avvicinati cu ascutari voli,
ca iu, ccu la me vuci naturali,
vi cantu 'n-fattu ca lu cori doli,
ca ni parraru tutti li giurnali;
li versi iu cci fici prestamenti
e ora vi li cantu a li prisenti.
Il richiamo ai giornali non deve ingannare, giacché l'argomento di questa « storia » e della maggior parte delle altre opere di Santangelo è, come mi ha confermato lui stesso, completamente fantastico.
Al solito, alla prima sestina segue la presentazione dei personaggi:
Vi vegnu a diri ca Petru Valenti
faceva di misteri lu braccianti;
si la passava 'm-pò discretamenti,
ma sacrifici ni faceva tanti:
aveva lu giardinu a mezzadria
e, travagghiannu, dda si la facia.
Era spusatu ccu Rosa Scalia,
ca ppi la vita so era la gioia
e ppi st'amuri riccu si sintia;
la vita la passava senza noia.
Aveva 'n-figghiu sulu, sfurtunatu,
di vintun'anni, Micheli chiamatu.
Michele è fidanzato con Maria Ferlito; ma Carmelino Branti, che aveva chiesto Maria in moglie ed era stato respinto, avanza assurde pretese su di lei, e una sera, spinto dalla gelosia, affronta Michele.
Carmelino estrae un coltello, minacciando Michele; questi cerca di difendersi ed infine è costretto ad uccidere l'avversario; una guardia notturna lo arresta immediatamente.
A questo punto Santangelo indugia a riferire il colloquio, che Michele e il padre hanno in carcere, e il dolore di Maria, la fidanzata, alla notizia dell'arresto.
Ma i problemi pratici incalzano: mancano i danari per pagare l'onorario di un buon avvocato che difenda Michele.
Perciò Pietro si reca dal padrone dell'agrumeto, che ha a mezzadria, e gli chiede di venderne le arance. Il padrone acconsente, purché la vendita avvenga senza suo danno finanziario.
Un commerciante va a valutare l'agrumeto, ma il padrone ritiene troppo basse le sue offerte, ed offre al padre di Michele di comprare lui le arance (caso previsto dal codice della mezzadria).
Pietro accetta, ma il padrone « vigliaccu, sfruttaturi, omu boia », medita già un inganno; con l'aiuto del figlio, un avvocato « bruttu di cori e di facci pulitu », prepara un contratto, in cui Pietro rinuncia alla mezzadria. A questi, che è analfabeta (« non sacciu littra », dirà in seguito), viene fatto credere che egli vende soltanto le arance.
Frattanto si giunge al processo di Michele e questi, difeso da un ottimo avvocato, viene condannato a soli otto anni di carcere.
Un giorno il padre di Michele, pieno di tristezza per la sorte del figlio, si reca nel « giardinu » che ha a mezzadria, ma il padrone, rivelandogli il vero contenuto del contratto, lo scaccia. Pietro se ne va, minacciando di morte il padrone:
Petru gridava: « Zzoccu dicu è veru;
non sacciu littra e si -nn'apprufittaru! »
Cci dissi a lu patruni: « Munzigneru,
Vogghiu la mizzarria, 'nnunca vi sparu! ».
Ddocu cci -arrispunniu lu patruni;
« Vaitivinni, omu 'mbriacuni ».
Petru cci dissi: « Vili lazzaruni,
nascisti ppi mbrugghiari cristiani,
sfacciatamenti vuliti raggiuni,
ma tutti sti minzogni sunnu vani;
la mizzaria a mia, mi l'ata-ddari
e lu cuntrattu si divi strazzari ».
Dopo qualche giorno, Pietro si reca in casa del padrone per far distruggere il contratto con cui era stato ingannato; i due vengono alle mani e Pietro, per uno spintone del padrone, precipita per le scale e muore.
Il cantastorie commenta con amarezza la fine di Pietro:
Amara quannu c'è la mala sorti!
Si va truvannu nta tutti li parti,
pirchì ovunqui ci sunu genti storti,
ca fannu mali e poi ammazzunu sparti.
Lu poviru Pitrinu, svinturatu,
ccu tutta la raggiuni fu ammazzatu.
Una cameriera ha assistito al fatto e il padrone le dà centomila lire, perchè testimoni, invece, che la morte di Pietro è stata causata da una disgrazia.
Michele, essendo venuto a conoscenza della morte del padre, una notte sogna che questi gli chiede vendetta. Risvegliatosi, promette a se stesso che lo vendicherà.
Passano gli anni, e Michele esce di prigione e riabbraccia la madre e la fidanzata che, fedele, lo ha aspettato. Dopo poche settimane, « ppi vnluntà di lu Patri Divinu », il padrone dell'agrumeto, sospettando di un furto la serva, che era stata presente alla morte di Pietro, la licenzia; questa, per vendicarsi, rivela a Michele la verità sulla morte del padre.
« Cu fa mali, ricivi sempri mali », dice il nostro cantastorie; quindi Michele si prepara ad uccidere gli assassini di suo padre.
A Carnevale, Michele entra, mascherato, in casa del padrone e comincia a divertire tutti con i suoi lazzi; tutti si chiedono chi sia celato sotto quella maschera così buffa, e anche il padrone, che non sa che quella maschera « era la morti, misa a lu so latu ». Infatti, ad un tratto, Michele si toglie la maschera, estrae una pistola ed uccide il padrone e suo figlio; poi si costituisce.
Segue il pianto della fidanzata e della madre di Michele:
La zita d'iddu chiangi a perdisciatu:
persi n'autra vota lu so zzitu;
forsi non era statu distinatu
di essiri ppi sempri so maritu.
Ma idda aspetta ancora a Michilinu
e prega a la Madonna di cuntinu.
Ma cu chianci di cchiù, a chiantu chinu,
è dda povira matri, ca figghiu unu,
unu sulu n'avia e lu distinu
si lu purtau 'n-galera.....
La « storia » si conclude con la morale, in cui il cantastorie consiglia di evitare le liti.
Questa composizione rappresenta, come dicevo, un caso piuttosto raro nella produzione di Santangelo e dei cantastorie di Paternò in generale.
Una volta tanto, la « storia » non si regge su un tradimento coniugale; anche se lo spunto della vicenda è dato da un delitto d'onore, l'interesse vero della « storia » si accentra sui problemi sociali (il sistema della mezzadria, le prepotenze padronali).
E si tratta di problemi sociali che non si perdono nel vago, ma si riferiscono ad una situazione ben precisa, cioè a quella di Paternò, centro di produzione agrumaria, nella cui zona la mezzadria è molto diffusa; Santangelo è nato e cresciuto a Paternò, ed è quindi naturale che, con un processo di concretizzazione tipicamente popolare, si sia occupato dei problemi a lui più vicini.
La presenza di questi problemi e il taglio drammatico, che ad essi dà Santangelo, fanno di questa « storia » una delle cose più interessanti del nostro cantastorie, anche se probabilmente, proprio per gli interessi sociali un po' troppo scoperti, essa non ebbe molto successo.
Successo grandissimo hanno invece sempre avuto le « barzilletti » di Santangelo, soprattutto per gli spunti satirici e di viva attualità, che vi si trovano; proprio per questi spunti Santangelo è oggi, a mio parere, il migliore autore di « barzilletti » fra i cantastorie di Paternò.
Si leggano, ad esempio, le prime quartine di « Lussu e cambiali », una « barzilletta » del 1960:
Li fimmini di st'ebbica
pigghianu lu cumannu;
all'omu, comu sceccu,
si lu vanu arrinannu.
Ci sunu tanti fimmini
assai viziusi,
firmunu cambiali
e vestunu lussusi.
E suddu lu maritu
lussu non ci fa ffari,
ci dicinu: « Sta attentu,
a me non t'ha-ncugnari! ».
E così « ccu l'armi so putenti » ottengono la resa del povero marito.
E quannu s'arrinnutu,
vasuna 'n-quantitati,
però all'innumani
cambiali firmati!
.............................................................
Iddi non si frastornunu,
e chistu è naturali,
ma 'n-veci lu maritu
si nzonna i cambiali.
Amara lu maritu
ca sbagghia la muggheri!
Inveci d'iri avanti,
mischinu, va nnarreri.
Peccato che dopo queste quartine lo spunto d'attualità si esaurisca, e Santangelo si perda in divagazioni sulle... libertà che i fidanzati d'oggi si prendono anche per le strade.
(1) Come vedremo, Garofalo non è compositore di « storie » o ne ha composto appena qualcuna; quindi il tirocinio poetico di Santangelo si svolse sotto la guida di Garofalo, ma soprattutto su testi di Pietro Parisi e Ciccio Busacca.
(2) A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale, Torino, 1952, p. 108; sulla ricerca gramsciana intorno al romanzo popolare si veda: S. LO NIGRO, ANTONIO GRAMSCI e la letteratura popolare, Firenze 1957, « Lares », anno XXIII, fasc. I-II, Gennaio-giugno 1957.
(3) R. LEYDI, Cantastorie, in « La piazza », Milano 1959
IL PASSATORE - LA STORIA DEL BRIGANTE STEFANO BELLONI
canta: Vito Sant'angelo
Signori mei, qui è il canstatorie Vito Santangelo, sono venuto a cantarvi la vera e completa storia del brigante romagnolo Stefano Pelloni scritta di Turiddu Bella e musicata di Ignazio Privitera, ascoltate che ne vale la pena.
Sforzo la musa mia per raccontare la vita, le avventure, il triste amore
tutte le imprese, le sequenze amare di quel bandito detto il Passatore che per capriccio di un prete furfante venne costretto a diventar brigante.
La nascita dell'uomo è interessante, fu un segreto d'amore veramente, d'una duchessa che aveva l'amante pur essendo sposata in quel frangente
(sapete con chi era sposata la duchessa d'Alba)
con in conte Dolora, un uomo strano tirchio, geloso, brutto geloso e molto anziano.
Sissignore a quel tempo le ragazze sposavano con il volere dei genitori,
i matrimoni venivano combinati col volere del padre e le povere ragazze dovevano prendere il marito che era stato per loro prescelto, nche la contessa D'alba pur amando il conte Giovanni Mastai Ferretti, aveva dovuto sposare il rimbandito conte Corona, ma la contessa D'alba si vendicò ben presto di quel suo forzato matrimonio ed approfitto nelle feste di Carnevale, si fece portare dal suo marito in un veglione danzante e li si incontrò col suo Giovanni e nella confusione della festa ne approfittò e se ne allontanò con l'amante, rimase con lui tutta la notte, il marito intanto cercava la moglie come un pazzo fra la folle: Conte avete visto mia moglie? No mi dispiace
Duca avetye visto mia moglie? Ma dove è andata? No, non l'abbiamo vista
Signori, la moglie ritornò dal marito l'indomani mattina , cercò di scusarsi, ma il marito gli rispose: Basta signora ho capito tutto, saprò se mi avete tradito e decise che per nove mesi non avrebbe diviso con la moglie il letto matrimoniale.
Intanto la contessa che aveva tradito il marito, ingrossava ogni giorno di più, la pancia Le si arrotondava più rotonda della luna e quando fu l'ora di partire essendo che aveva nascosto il suo stato si ritirò in un suo castello presso Albano
Li ebbe un figlio bello e sano, frutto di quel suo amore adulterino e lo affidò ad un ottimo villano d'una villa vicino, contadino, tale Vincenzo Pelloni chiamato, uomo da bene onesto ed onorato.
Gli confidò quale era il suo peccato e gli raccomandò di stare muto, gli disse: tieni mio figlio, crescilo educato che per denaro ti verrò in aiuto e quando lo battezzi devi dare Stefano il nome e Giovanni macari.
Stefano per il giorno ricordare, della la nascita sua, gioia e dolore, Giovanni pure si deve chiamare, come suo padre, il mio più grande amore.
Vincenzo ad ubbidirla le promise ed intanto ad emigrare si decise.
Così il figlio della contessa D'Alba venne abbattezzato assieme ad un figlio di Vincenzo Pelloni nato nello stesso giorno e poi morto e gli venne imposto il nome di Stefano Giovanni e il cognome di Pelloni, La contessa consegnò a Vincenzo una medaglia portante gli stemmi gentilizi di lei e del conte Mastai e la data di nascita del figlio, poi ritornò a Roma e non si fece più vedere dal campagnolo.
Vincenzo ricevette pure una grossa di denaro dalla duchessa e con quella somma comprò una casetta vicino Faenza, sulle rive del fiume Lamon,e un pezzetto di terra, una casetta e una grossa barca con la quale istituì un servizio di traghetto da una riva all'altra del fiume divenendo così il Passatore.
Stefano, intanto, pieno di vigore cresceva bello e si faceva amare, da quel suo putativo genitore perchè era buono e ci sapeva fare, dimostrandosi sempre affettuoso, intelligente bravo e studioso.
Quel padre tanto buono ed amoroso, di farlo sacerdote fu d'avviso e pure non essendo facoltoso, si sobbarcò alla spesa assai deciso, così quel ragazzetto com'è d'uso, in un gran seminario fu rinchiuso.
Si, il padre a Stefano Pelloni lo voleva fare prete ma c'è un vecchio proverbio che dice, matrimoni e vescovadi son dal cielo destinati, si vede che Stefano non era destinato a diventare prete, infatti il giovanotto non appena compito diciotto anni si accorse di non essere fatto per quella vita, rinunciò quindi alla sua missione e ritornò a casa dove aiutava il padre nel suo mestiere di passatore.
Viene quel giorno che l'amore batte e i giovanotti prendono le cotte, e quando con l'amore si combatte non c'è più pace ne giorno e ne notte, la mente è fissa nell'amato bene e sempre agitata si mantiene.
L'amore è fatto di gioie e di pene, delle imprudenze più audaci e strane, di gelosie e di zucchero e veleni, di dolci baci e parole vane e l'uomo che ad amare si dispone diventa schiavo di cotal passione.
Povero Stefano Pelloni, così gli è successo a causa dello'amore fece una brutta fine
Dovete sapere che si era fidanzato con una giovanetta orfana di padre, una certa Carmela, la quale a causa della malattia della madre paralitica, aveva per tutore un prete, detto Padre Don Frediano, Carmela era bedda assai, Don Frediano era un vero dongiovanni, il quale nutriva per la ragazza una insana passione e l'uomo birbante aspettava il momento adatto per sedurla, quindi quando seppe dell'amore fra Stefano e Carmela, pazzo di gelosia, Don Frediano, impose alla ragazza di rompere con Stefano ogni rapporto. le disse Syefano è un cattivo soggetto, un delinguente, non è degno di te, devi dimenticarlo lo scopo era signori miei, che il prete la voleva a Carmela, si ma intanto Stefano e Carmela si incontravano ognis era, come al solito in campagna e una sera il prete, nascosto dietro un cespuglio, ascoltò le parole che si dissero i due fidanzati Carmela disse: Stefano amore mio, senti io lascerò appeso alla finestra un pezzo di stoffa, tu quando vedrai questo segnale potrai venire che mi troverai sola; signori miei, il prete, nascosto dietro il cespuglio, sentendo queste parole, sentite cosa fece, preparò la sua vendetta.
Stefano l'indomani di vedetta, scorge il segnale e appena è notte fitta, verso
l'appuntamento il passo affretta inforcando il sentiero a mano dritta e giunto poi in casa della amata scavalca il ferro della cancellata.
Trova la porta di casa accostata che pare proprio che ad entrar l'invita e lui posa le scarpe nell'entrata e delle scale inizia la salita, poi scalzo e piano per non far rumore, si dirigì alla stanza del suo amore.
Povero, giovane, non aveva ancora salito metà di scale quando si sentì serrato alla vita e s'accorse che quell'abbraccio non era della fidanzata, perchè non riceva baci, riceveva pugni, gomitate, perciò povero giovane doveva lottare: Ma chi siete, (c'era buio signori) Stefano non ssapeva con chi lottava, laciatemi, poveretto si doveva difendere e allora si difese con tutti i modi, pugni testate, gomitate, ad un certo punto Stefano, mentre si lottava con quelle persone ignote per lui, signori, sentì la voce di Don Frediano che gridava: Arrestatelo, è un ladro, nello stesso tempo Stefano si sentì afferrato dal prete, che riuscì a mettere in tasca una scsatoletta contenenti alcuni anelli d'oro e una collana, ma Stefano, con uno strattone si liberò del prete e con un pugno in pieno viso lo buttò per terra, poi approfittando del buio e della confusione riuscì a scappare; Stefano, arrivando a casa, si accorse della scatoletta che aveva in tasca lo immaginò che era stato il prete e fu preso da una tremeda ira.
La rabbia più potente lo governa e l'accusa di ladro lo frastorna, vi giuro, padre, mio per l'ostia eterna, netto, innocente vostro figlio torna; il padre gli disse Stefano allora non sai niente di questa scatoletta? No e quest'oro che c'è nel mio tascino fu messo apposta dal prete meschino.
Il padre gli disse: Sei perso, figlio mio, il tuo destino è nelle mani del prete Frediano e prima ancora che giunga il mattino, sarai arrestato, se non vai lontano, quindi se tu nontu vuoi vergogna e pene scappare nottetempo ti conviene
Aveva ragione di parlare così il padre di Stefano perchè Don Frediano era la suprema autorità del paese, in quei tempi dove dominava lo Stato Pontificio e dunque il povero Stefano partì quella stessa notte, insieme al medico Pierluigi Carlo Farini e a un altro giovane, si, verso Rimini poi combattè coi rivoluzionari contro il governo pontificio, prima di ripartire raccomandò alla madre di riportare i gioielli al prete e soggiunse
Sono innocente, madre ricordate, presto ritornerò se avrò salute e tate verità saran svelate e i nemici miei saran perduti, perchè da oggi, parola d'onore, Stefano muore e nasce il Passatore e la casa lasciò con gran dolore con una spina pungente nel suo cuore, gli disse parto e mi scorderò le mie sventure, dove si lottano i preti o si muore ma un giorno giuro che la mia vendetta sarà la più tremenda e più perfetta.
La rivolta di Rimini fallita fu nel sangue ben presto soffocata e per Stefano quindi fu finita, povero giovane, perchè venne arrestato all'impensata e per quattro anni interi fu gettato dentro una fredda cella carcerato.
Mentre Stefano era in cella don Frediano, prete scellerato, (il tutore di Carmela, il tutore della fidanzata di Stefano), di Carmela gran cura aveva avuto, l'aveva in un convento relegato, dove era confessore l'uomo astuto, potendo sol così senza lottare l'amante di Carmela diventare
Vedete quanto fu scaltro Don Frediano, sissignori, con la scusa che Carmela era rimasta sola, dopo la morte della madre paralitica, il prete la fece rinchiudere in convento, nello stesso convento dove lui era il confessore delle monache, una volta avutala in sua balia, incominciò la sua opera di seduzione, vigliacco infame, per prima cosa cercò di smorzare nel cuore del ragazzo l'amore per Stefano e raggiunse il suo scopo parlando male del giobane, gli disse: E' un ladro, un assassino, uno senza Dio, devi dimenticarlo e ho saputo che si trova in carcere, perchè uno che non sta nella giusta via, finisce in carcere, glielo descrisse talmente delinguente che la povera Carmela gli credette e a poco a poco dimenticò il suo antico innamorato, poi il prete vigliacco incominciò a circuire la ragazza gli diceva: Ma quando sei bella Carmela, sei molto bella sai, per me sei la donna più bella del mondo, signori, dopo tati corteggiamenti la fece sua, prete vigliacco.
Stefano, intanto, tra peni e tormenti, quattru anni avia passto in quei recinti, un di la cella sua aprir si sente ed entra un uomo di modi distinti, sospinto avanti da due carcerieri villanamente con brusche maniere
Rimasti soli quei due prigionieri, fra di loro si misero aparlare e l'uno esterna ll'altromi suoi pensieri e vuol la sua sventura raccontare, Stefano disse sono carcerato, ingiustamente di latro accusato.
Io sono in questo carcere gettato, rispose allora quel nuovo venuto senza avere nell'anima peccato, salvo la colpa d'essere un cornuto, Paloma Daniele, il nome mio, son commerciante onesto e lo sa Dio.
Paloma Daniele a Stefano gli raccontò la sua triste storia, avvilito gli disse: io sono un commerciante di gioielli, avevo una mpoglie bellissma che amavo più della mia vitae due figlioletti, un giorno la mia sposa mi piantò e fuggì via di casa portando con se i miei figli, per tale fatto mi rivolsi al tribunale, ma il tribunale mi diede torto, dicendomi che essendosi mia moglie battezzzata e fatta cristiana, aveva fatto bene a lasciarmi, anzi annullò il mio matrimonio con Giuditta, capisce, dopo alcune settimane lo stesso tribunale ecclesiastico gli ha permesso di sposare il suo amante condannandomi di pagare trenta scudi al mese da versare agli sposi, vedi quale ingiustizia e solo perchè a tale condanna mi misi a gridare, il cardinale Pizzoni, presidente del tribunale mi accuso alla magistratura e mi fece arrestare e portare in questo carcere, questa è tutta la mia storia. Stefano si commosse a racconto e promise di vendicare il povero Daniele, gli disse: se ho la fortuna di uscire da questo cacere, Daniele credimi, ho capito che sei un uomo sfortunato come me, ti giuro che se avrò lafortuna di uscire da questo carcere ti vendicherò, ma chissà quanto ancora dovrò stare in questo carcere, rispose l'israelita, non ti preoccupare Stefano, io prima uscirò daquesto carcere e farò usciore anche te
Da qui presto uscirò stanne sicuro perchè ho pagato già tanto denaro, l'oro ammollisce pure un cuore duro e diventare fa dolce l'amaro e infatti Daniele l'indomani fu scarcerato e uscì da quelle tane e non si dimentico di fare uscire pure Stefano e le promesse sue non furon vane, Stefano fu aiutato e scappò infine, da quella cella dove come un cane aveva passato quattrro anni meschini e quando fuori fu dalla prigione si intese più potente di un leone.
Una volta scappato dal carcere Stefano Pelloni disse adesso mi devo vendicare di tutti queeli che mi hanno fatto male.
Roboama Osina, ricco commerciante, d'origine israeita veramente, si era battezzato tempo avanti per i suoi scopi e cristianamente, ora faceva illeciti guadagni insieme a certi preti suoi compagni.
Di tutto il grano di quelle campagne, faceva incetta ma con mire indegne, per venderlo di poi a prezzi magni ricavando denari ed altri pegni
ed aveva arricchito il suo taschino a scapito del popolo meschino.
Ad Roboama Osina, una sera un fraticello cappuccino gli avvicinò. mentre Roboama si trovava in piazza, quel fraticello cappuccino gli disse: Il vescovo mi manda per dirici che vi aspetta per un affare iomportante da concludere subito, portate con voi una buona somma di denaro perchè trattasi di una grossa partita
Gli affari tra il vescovo e Roboama non erano infrequenti di quei tempi, ma quel giorno Roboama non aveva addosso una grossa somma disse al fraticello: Ritornate dal vescovo e ditegli che verrò da lui non appena andrò a casa a prendere denaro. Il frate rispose vengo con voi poichè debbo accompagnarvi personalmente da sua Eminenza, e infatti lo accompagnò fino a casa, qui giunto il commerciante andò fino alla sua cassaforte e la aprì per prendere il denaro necessario, ma in questo mentre il monaco lo afferrò per il collo. ma che fate? si vieni qua, lo buttò sopra una poltrona tappandogli la bocca con uno straccio e legandolo come un salame, poi prese tutto il denaro dalla cassaforte e i gioielli e scappò, signori miei, quel falso cappuccino era Stefano Pelloni, il Passatore
Non appena in possesso dei quel denaro Stefano si formò una grossa banda
La prima cosa che fece all'istante, fu di mandare immediatamente a Faenza un bandito stravagante in quel convento e più precisamente (sapete in quale convento) da Carmela l'antica innamorata, ora monaca santa diventata)
e quel bandito, con faccia truccata, si travestì di donna mansueta per fare ancora meglio l'ambasciata, la mascherata fu assai completa di fatti le parlò con eloquenza nel parlatorio in tutta confidenza.
Il bandito Faenza si travestì di donna e parlò con la fidanzata di Stefano e gli disse: Sono una donna religiosa, che vado tutti i giorni a messa e mi comunico ogni mattina, quindi per scrupolo di coscienza debbo avvisarvi che è scappato dal carcere il terribile brigante Stefano Pelloni il quale cerca Padre Don Frediano per fargli la festa, sapendo quado lui sia cattivo sono certa se capita il povero prete lo scanna come un capretto. Carmela a queste partole tremò per il suo amante, bisogna che Padre Frediano sia avvisato subito, voi che siete una donna pia tanto affezionata alla madre Chiesa dovete fare il favore di portere un mio biglietto con il quale lo metto in guardia; la finta donna acconsentì certo e Carmela scrisse al prete: amore mio vieni presto, non tardar, ne va della tua vit; gli consegnò il biglietto e quella fnta donna se ne andò, certamente il bandito Faenza portò quel biglietto a Stefano Pelloni, poi Stefanio dopo averlo letto lo fece arrivare a Don Fredianpo, Stefano disse: Mala femmina, donna senza onuri ora faremom i conti.
La notte era calata in ogni punto, tutto coprendo col suo nero manto
e Carmela aspettava per l'appunto, (a chi aspettava?) il confessore suo che amava tanto, a un certo punto Lei sentì il segnale del sacerdote che fu puntuale.
Lanciò dei sassolini nel portale e chiamò poi con bocca di miele
a voce bassa e con tono fatale, Carmela, la più bella di tutte le Carmele
e Carmela affacciò dalla finestra e una scala di corda buttò a destra,
(donna sdisonesta, aveva sempre così la monachella per ricevere di notte il suo innamorato, non appena Don Frediano fu nella celletta della ragazza se la strinse al petto e la baciò, gli disse Carmela ti voglio bene sempre di più, ti voglio bene. E allora lei le disse senti, Frediano, amore mio fatti parlare è venuta una donna mi ha venuto a confidare che ti sta cercando il bandito Stefano Pelloni, se ti prende ti uccide, ti fa fare una brutta fine, perciò, amore, mio devi scappare, devi nasconderti.
Rispose Padre Don Frediano, non ti preoccupare penserò io a fare arrestare questo bandito, vieni, poi la trascinò sul lettino e appoggio la testa di lei sul suo petto.
Mentre Carmela con slancio ed affetto, dava l'amore suo a quel farabutto, un uomo armato e di feroce aspetto irruppe dentro e si mostrò del tutto, dicendo: infame coppia puzzolente vi sorpresi sul fatto finalmente.
Egli era il Passatore la presente, tremaronmo perciò i due amanti, Don Frediano poi batteva i denti a sol vedersi Stefano davanti e Stefano con sdegno e con furore per il petto afferrò quel confessore.
Sbattendolo con rabbia gli disse: Uomo vile, assassino dell'onore e della mia pace
cosa ti avevo fatto serpente di tori per accusarmi di ladro, sei stato tu a mettermi la scatoletta con gli anelli d'oro in tasca, parla, confessa la mia innocenza innanzi a Dio e a questa malafemmmina
Il prete tutto tremante di spavento confessò la sua trama e buttandosi in ginocchio gli disse: Stefano non mi uccidere, ti prego perdonami. A sentire tali fatti Carmela gli
sputò in faccia al prete Puh!!! vile traditore, allora mi hai ingannaro, poi come una belva scatenata gli si lanciò addosso e a quel pretaccio lo graffiò tutto in faccia, lo ridusse un ammasso di ferite, poi rivolto a Stefano Carmela con voce accorata gli disse: Stefano mio perdonami, ti prego, perdonami. E' troppo tardi ormai, rispose il brigante, piangi la tua sventura
Intanto sanguinante e con paura a morire quel pretaccio si prepara, perchè riflette in quella congiuntura che la sua colpa da pagare cara
(chi male fa male aspett.a dice un proverbio che non sbaglia)
Stefano fece un fischio in quell'istante e venne dentro un giovane brigante.
Comandi capo, tieni la donna un poco più distante
e se fa gridi ammazzala in un niente, disse Pelloni a quel birbante il castigo gli inflisse finalmente (questo castigo diede a Don Frediano) che cosa fece? il naso gli tagliò con un coltello e dopo lo castrò come un agnello.
E così il prete pagò a questo caro prezzo tutto il male che fece, sentite ancora perchè non è finita la storia del Passatore
IL famoso arcivescovo pPizzoni superbo e prepotente senza fine fu vittima di Stefano Pelloni che non guardava le vesti divine e i preti li trattava tutti uguali dal cappellano fino al cardinale.
Il prerlato facea l'abituale passeggiatina al tramonto del sole
con la carrozza sua e col vetturale che guidava una coppia di muli, internandosi in mezzo alla campagna, per respirare l'aria pura e magna.
Giunti ad un certo punto il prelato scese dalla carrozza e si avviò a piedi e solo e soletto si diresse verso un boschetto di pini, aveva fatto una cinquantina di passi quando da una fitta massa di rovi uscì un giovane robusto e fiero, di aspetto civile, gli disse arcivescovo fatemi l'elemosina, rispose l'arcivescovo: non vi vergognate di elemosinare così giovane? l'apparenza inganna eminenza, la verità è che ho bisogno della vostra carità. Andate fannulloni, per gente come voi il mio cuore è chiuso
Ah! così la pensi monsignore, così segui gli insegnamenti dui Cristo ebbene allora ti dico che devi sborsarmi subito mille scudi così ti ricordi di Stefano Pelloni e farai più spesso la carità ai poveretti.
Signori miei, a sentire ciò, l'arcivescovo divenne bianco come un panno lavato, gli disse dovrò andare a palazzo per prendere i mille scudi perchè qui non ce l'ho, ma Stefano naturalmente non acconsentì, l'arcivescovo restò suo ostaggio ed in città venne inviato il vetturale con l'ordine di portare il denaro, in questo frattempo il brigante si ricordò della promessa fatta io carcere a Daniele e ottenne la promessa dall'arcivescovo che quel poveretto non avrebbe più pagato i trenta scudi alla moglie, non solo ma ottenne che uno dei figli fosse restituito al padre, l'altro sarebbe rimasto con la madre, non essendo figlio di Daniele, ma dello stesso Opizzoni, questi furono i patti.
Frattanto il vetturale torna e viene, ben caricato di tanti zecchini e Stefano Pelloni si trattiene i mille scudi si lucenti e fini, libero siete monsignore andate ,ma vi consiglio i patti rispettate, si, rispose l'arcivescovo non li rispetterò, non dubitate disse Opizzoni ma non vi offendete se in una delle prossime giornate riprenderò gli scudi che ci avete, rispose Stefano tentate monsignore ma se fallite me ne date altrettanto che ne dite.
Stefano non era un fesso, signori miei, e capì che l'Arcivescovo avrebbe mandato contro di lui tutte le truppe del circondario, sia per vendicarsi, chr per riprendersi i mille scudi, dispose quindi tutti gli uomini sugli alberi del bosco vicino e quando l'indomani le truppe papaline si avventurarono nel bosco per prenderlo vivo o morto, ne fece una carneficina, la maggior parte dei soldati rimasero morti, molti fuggirono e il colonnello comandante fu fatto prigioniero.
Pio Nono, papa buono giusto e santo, era in quei di in vacanza proprio giunto, presso Castel Gandolfo che sta accanto alla città di Roma per l'appunto in una villa assai sfarzosa e magna e dei papi dimora di campagna.
Il pontefice aveva alle calcagne la nobiltà piu splendida e più degna che alla villeggiatura lo accompagna perchè c'è corte dove il papa regna, vescovi, cardinali preti, abbati il fior fiore dei migliori prelati
Nell cittadina si era raccolta molta folla, sia per veder il papa, sia per ascoltare un celebre predicatore che doveva venire a Roma proprio in quel giorno
IL papa era seduto in una monumentale potrona scolpita in oro fra il cardinale Antonelli e il suo confessore in attesa che incominciasse la predica
all'ora stabilita salì sul pulpito un giovane prete di nobile presenza il quale si inginocchiò, si fece il segno dell croce ed incominciò.
O preti che l'egoismo vi conduce, d'oro e d'argento essere rapaci, di paradiso non vedrete luce se restate di satana seguaci, se userete razza d carogne, la falsità l'inganno e le menzogne
Smettetela di far tante vergogn,e bocche d'inferno e cuori di macigni, fate tesoro di queste mie rampogne, non siate nè crudeli nè maligni
non fatevi chiamare dalla gente patri e maestri troppu di frequente
A sentire quelle parole ogni prelato diventò rosso per la vergogna
Il Papa credeva di avere un incubo e non sapeva capire cosa intendeva dire quello strano tipo di predicatore, ma quello continuava la sua predica investendo i ricchi dicendo che non era per essi il regno dei cieli ed invitava i presenti a fare tante elemosine per riscattare i loro peccati.
A questo punto si vide una moltitudine di monaci entrare da tutte le parti della chiesa e spargersi in mezzo ai fedeli tenendo in mano un lungo fucile alla cui estremità era legata una borsa di stoffa, si soffermavano dinnanzi ad ognuno e come se salmodiassero dicevano: fate la carità che abbiamo fretta, solo i ricchi però, gli altri niente; succersse un parapiglia, si signori miei, la gente spaventata cercava di scappare, ma dinnanzi alla porta c'erano atri monaci armati che impedivano l'uscita a chicchessia. La voce possente del predicatore allora disse: Silenzio, calma e si scusò col Papa, gli disse: Pap,a scusate di tutto questo disturbo che vi sto arrecando e tutta questa scortesia, la colpa non è vostra, voi siete un santo uomo, ma i vostri ministri e quelli che vi circondano non sono degni di indossare quella veste.
I vostri ministri hanno la mania di darmi molto spesso qualche noia
e m'hanno fatto fare tanta via per venire a esigere con gioia
i cinque miila scudi belli e buoni promessi di Pelloni,
or quella testa è qui e a voi si espone, guardate ministri sbirri e affini
e se ne avete proprio intenzione, vengtela a pigliare e senza spine,
non prima che la taglia avrò pagato l'illustre segretario di Stato.
Con una voce che non ammetteva repliche invitò tutti i nobili a raccogliere tra denaro e gioielli cinque mila scudi, fu obbedito subito e non appena avuto la somma indietreggiando con i fucili puntati sulla folla i banditi si dileguarono.
Fra tante imprese audaci del brigante ve ne fu una che non ha confronti
e fu una impresa molto interessante perchè bene tornarono i suoi conti
in maniera cotanto originale che raccontarlo in ver la pena vale
S'era sposato un grande generale e far la festa lo sposo si vuole
per cui Opizzoni, noto Cardinale, misa da parte la mitra e le stole
organizzando un giorno un gran festino in onore della sposa e lo sposino.
Il cardnale Opizzoni per rendere più solenni i festeggiamenti aveva invitato tate personalità della politica e della finanza, il conte Antonelli, segretario di Stato il conte Dadini minitro degli interni, Roboama Sina ricco finanziere, prelati funzionari eccetra eccetra, da Forlimpopoli aveva fatto pervenire una compagnia drammatica di celebri attori per dare uno spettacolo nel teatro della città, la sera della rapprsentazione il teatro era pieno zeppo e all'alzarsi del sipario anzichè attori si videro sul palcoscenico Stefano Pelloni e molti componenti della sua banda con i fucili spianati verso la platea. Lavoce di Stefano Pelloni ruppe il mormorio di sorpresa della sala: Fermi tutti ed ascolatemi senza fiatare.
Amici popolan ,mi scusate, se vi disturbo per cinque minuti,
della nosra presenza non tremate, che per voialtri non siamo venuti,
state silenziosi per un momento ora incomincia un bel divertimento.
Io ci ho bisogno dell'oro e l'argento posseduto dai ricchi per l'appunto
e questa sera non sarò contento se coi signori ricchi non la spunto
li tasso tutti, chiamo ad uno ad uno e della tassa non scappa nessuno.
In quel palco a sinistra c'è un mutilato, Padre Don Frediano che neha molti quattrini, mi paghi all'istante tre mila scudi, Roboama Sina, quel signore seduto in prima fila, essendo molto più ricco, ne pagherà sei mila. Ma come? Silenzio, Il conte Filippo Antonelli seimila scudi (Assassino) Sillnzio mentre il suo fratello cardinale ne paga dieci mila, altri decimila scudi ne pagherà il signor minisro di polizia e continuò di questo passo fino a raggiungere una grossa somma, infatti Stefano si ritrò con i suoi uomini, portando con se cinquanta mila scudi.
Non c'è di farsi alcuna meraviglia dice un proverbio antico che non sbaglia
se chi con una brocca l'acqua piglia, rompe la brocca fatta di terraglia,
la stessa cosa fu per il Passatore lui che ne combinò di ogni colore.
Pieno di scorno e pazzo di furore Antonelli lo vuole sterminare
e sbirri ne mandava in tutte le ore per la sua attività poter frenare
perciò si fece a Stefano una caccia come si fa alla lepre o alla beccaccia
Si assoldarono spie, si seguì ogni sua traccia per stabilire quale era il nascondiglio della banda lo si attaccò ogni giorno, in ogni punto, Stefano Pelloni si difendeva come un leone, i suoi uomini erano valorosi e combatterono da eroi. ma il prefetto di Polizia inviò contro Stefano tutte le forze disponibili e un fatale giorno riuscì a circondare il Passatore e i suoi uomini. Il brigante si difese con coraggio, ma infine vistosi perduto disse: Non mi prenderanno vivo, no, non cadrò nelle loro mani, npn gli darò la soffisfazione di prendere il Passatore vivo, mi ucciderò con le mie sesse man,i Povero Stefano Pelloni, per non farsi prendere vivo, si tirò così un colpo di pistola in testa e così morì Stefano Pelloni detto il Passatore
Quando Padre Don Frediano fu informato della morte del suo nemico, volle vederne il cadavere e quando l'ebbe davanti, quell'uomo delinguente e boia volle sputarlo, gli disse Puh..., fimalmente sei morto è l'ora mia ti pesto infine delinguente e boia
ormai è finita la tua vita ria e calpestare ti potrò con gioia senza pensare il vile in quell'istante che fu per colpa sua quello brigante
Ma il castigo c'è per il birbante che dei suoi peccati non si pente e quel prete che visse da furfante, visse una vita di pene e di stenti , preso da epilessia cadde ammalato e morì solo afflitto e disperato
AMURI E PASSATEMPI
testo Turiddu Bella canta: Vito Sant'angelo
Avvicinati amici ca Vitu Sant'angelu vi canta na storia felici
scritta di Turtiddu Bella sintitila amici ca vi sparratia a ridiri.
Na certa donna Nunzia avia na figghia schetta,
daveru assai simpatica però troppu civetta.
Ci dava cocciu subbitu a tutti li picciotti, a chistu a chiddu, all'autru
di jorniu e sia di notti .
Sta bedda signuria civettiva cu tutti ma nuddu si potti vantari d'aviriri datu un vasuni.
Lla matri filicissima di aviri tali figghia
si nni vantava in seguitu p'onuri di famigghia.
Ca non è cosa solita aviri nda la casa, na figghia ca ama l'omini
e non carizza e vasa
Ma Cuncittina, pi lu so modu d'agiri avia divintatu la faula di Catania
e stu fattu, signuri mei, 'ncuminciau a urtari la gioventù du quarteri.
An certu Turi Nespula 'nun ci putia paci
ca essennu troppu caudu ddu stili non ci piaci.
(Sintiti chi fici Turi Nespula era dicisu di vasari a Cuncittina)
Tuntava na sira 'nfamiu di darici nma vasata
ma Cuncittina tacchiti na forti tumbulata.
Signuri mei Turi Nespula cu dda tumbulata ci ristau troppu mali ci dissi a Cuncittina: senti bedda ancora a mia nuddu m'ha svintatu e fimmini n'haiu canusciutu chiossà di la rina di lu mari ora veni tu cu sta facci di santa e cridi di putirimi pigghiari pi fissa, mi scrivi che mi voi chiù beni di la to vita, mi dici ca si pazza pi ia, mi duni l'appuntamentu a la villa e sulu pirchì ti vogliu vasari mi duni tumbulati, beddu amuri, ti l'assicuru, ma ti giuru Cuncittina mi la paghi cara.
Cussì dicennu Nespula la lassa e s'alluntana
cu mezza faccia niura comu na mulinciana.
Non c'è d'aviri scrupuli diceva tra si stisso,
ma se sutta mi capita vi giuru la subbissu.
Dopu na para di jorni di stu fattu successi ca un vicinu di casa di Cuncittina un certu don Nicola Tistazza, vicchiareddu di ottantacincanni, mischinu morsi di morti subbitanea, stu Don Nicola nun aveva nè mugghieri e nè figghi e stava sulu in casa, aveva un niputi a Caltanissetta soltanto, di la so morti si n'accurgiu lu lattaru ca la matina ci purtava lu latti, e desi l'allarmi 'nda lu vicinatu, e siccomu lu vecchiu era arrispittatu 'nda lu quarteri tutti li vicini ci eru in casa, lu visteru lu misiru supra a du trispiti e quattru tavuli e lu sistimaru mezzu di la casa tra quattru cannili, poi ficiru un teligramma a luniputi di Caltanissetta, pi non lassari sulu lu mortu la sira Cuncittina so matri e tanti altri vicini, s'assittaru 'nda la prima stanza pi vigliari lu mortu.
Pi dari paci a dda anima tra quattru cannileri,
dicevanu rusarii ed autri prighieri,
Su daccussì pruiannu e ripriannu
a lu niputi sparlanu ca abbannunanu lu nannu.
Ma lassamu ddi fimmini che dicevanu reiui eterni e patri nostri e sparraunu a lu niputi, èpigghiamu a Turi Nespula, chiddu ca via pigliatu a tumbulata di Cuncittin,a passiava da lu chianu nirvusu, si signori mei, pinsannu sempri comu ci a puteva renniri a Cuncittina; a un certu puntu si c'avvicinau un picciottu, un beddu cocciu di viddranu, co sapi di quali paisi scinneva, lu quali tuttu affruntulinu ci dissi:
Amicu miu scusatini iu sugnu furasteri,
non sacciu di Catania ne strati e nè quarteri.
Scinnivi pi spassari e aviri piaciri
cu qualchi bedda fimmina ma un ni pozzu iri?
Turi Nespula si misi a ridiri, ci dissi, non vi preoccupati, amicu miu, unni voi desiderati
prima vuleva iricillu a pigliari a Marta, ma poi c'arriflittiu Turi Nespula, si pigghiau a brazzettu dduu picciotti e cu gintilizza si lu purtau 'nda la strada unni stava Cuncittina, arrivatu a lu spuntuni ci dissi:
A manu ritta subbitu dopu ddu lampiuni,
ci sta na bedda fimmina, ca vinni li vasuni.
C'haviti di spassarivi tutta la siritina,
pirchì è picciotta pratica la bedda Cuncittina.
Signuri me,i ni Cuncittina ci u mann,)(au sintiti, Lu furasteri lu ringraziau e tuttu filici e cuntenti si 'ncaminau bersu la casa ca c'era stata disignatu comu un pazzu, pinsannu la scena ca avissi succidutu tra pocu tra Cuncittina e lu viddranu dissi: La me vinnitta è fatta, Cuncittina svintau a mia ed iu sventu a idda. Ora si vidinu arrivari stu viddaru e fanu l'opira.
Lu cuntadinu spraticu però si cunfunniu
e cu dda testa streusa a naudda banna iu.
(Signuri mei sintiti unni s'inniu ddu picciottu cretinu)
Vidennu lustru nesciri in casa si cunsola
e trasi unn'è che c'era lu mortu Don Nicola
Duu viddaneddu s'ingannau difatti visti tutti ddi fimmini assittati in giru ni dda stanza prima unni vigliavunu lu mortu e si pirsuasi ca aviva zirtatu lu locali di passatempu. Autri ca una ca fimmini ci nn'è du tutti li culuri, a voghhia, Bongiorno. Comu trasiu chiddi ci vinniru tutti incontru cridennu ca si trattassi di lu niputi di lu vecchiu c'ava viniri di Caltanissetta, inveci ddu giovanottu nun era lu niputi di lu mortu, ma s'ingannaru, viditi, lu salutaru cu simpatia, poi donna Nunzia ci dissi:
Ora ca vui vinistivu la cosa è sisrimata
siti parenti 'ntrisicu faciti la nuttata.
Nuatri caru giuvani suliddu vi lassamu,
dumani a ghiornu, è logico, di novu riturnamu.
Ddu giovanottu non s'avia ancora accurgiutu di lu mortu ca si truvava 'nda l'autra stanza e sinyennu parlari di fari nuttata, signuri mei, addivintau russu russu e ci dissi:
Vinni pi trattinirimi un'ura bella apposta
ma staiu na notti 'nsemula se caru non mi costa.
Rispusi donna Nunzia la cosa è naturali
la notti è tutta gratis, ma c'è lu funerali.
Signuri mei, ddu picciottu sintennu parlari di funerali ci dissi ma quali funerali, comu quali funerali, ca so nannu, Me nannu? quali nannu, comu quali nannu, ca so nannu, dda banna stanza, ancora non l'ha vistu a so nannu?
Signuri mei ddu giovanottu quannu taliau ni l'autra stanza appressu e visti lu mortu, mischinu ci vinni a frevi a quaranta scappau fora chi capiddi tisi do spaventu
Ristaru a taliarisi li fimmini mischini,
ca nenti ni sapevanu di certi matascini
(chi ni sapevanu du giovanottu pirchì avia jutu dda.
E pi n'aviri scrupuli passaru la nutata
a turnu nda da camira pa finu a matinata.
(ficiru u so duviri ddi fimmini)
All'indumani arrivau Ignaziu, lu veru niputi ca aviva murutu, era un giuvani maestru di scola simpaticu e giniusu, dispuniu pi lu funirali di so nannu e accittau li cunduglianzi di li vicini, ma chiù di tutti però accittau li cundiglianzi di Cun cittina, la quali ci strinciu a manu forti forti mentri lu guardava cu l'occhi cianciulini di disidderiu.
Ma stavota Cuncittina nun lu faceva pi civetterieia comu l'autru voti, s'innamurau veramenti di ddu giovanottu ca so nannu ci lassu macari na bona doti.
E lu 'nvitau a veniri ddu jornu a lo so casa
ci fici un pranzu e in ultimu pi chiudiri lu vasa.
E va a finiu la storia ca tantu dissi e fici
Cuncetta spusù a Gnaziu e ora su filici.
LA GIOVENTU' MODERNA
canta: Vito Sant'angelo
Vitu Santangelu vi canta "La giuvintù muderna"
Sintiti amici, unni semu arrivati
Oggi li signurini, cu tri ghita di taccu
a l'omu ca è scapulu c'abbianu li chiaccu
Ci suni signurini, d'appena tridici anni
su ziti ammucciuni cu Peppi o cu Giuvanni.
Lu zitu poi ci dici tempu non s'ha pirdiri
fuiemuninni subibitu non i fari suffuiri.
Certuni mancu na simana stanu ziti
si ni fuiunu p'acquistari tempu (e fanu beni)
E prestu si nni fuiunu, pi l'omu chi ruvina
la mogghi porta i causi e l'omu la vistina,
ci dici a lu maritu iu divu cumannari,
vogghiu divirtimenti e la moda aia a fari.
Si l'omu si ribella non avi pacienza,
la mogghi non ci 'ncugghia, lu metti in pinitenza.
Certi mugghieri, pi currivu, mancu ci cucinanu
e mariti quantu si tichittusi
Non avennu carizzi e baci di cuntinuu
s'arrenni lu maritu divenni un cagnulinu
e voli la mugghieri quann'è tempu d'estati,
cannoli e cocacola coni e birri agghiacciati.
Aviri ogni duminica pi rispiarri anticchia a dopu iuta o cinima gilatu pi rinfriscu.
Ancora chissu è nenti oggi la donna è troppu viziusa
Voluni iri a plaia a farisi lu bagnu
'ncustumi si rinfriscun u da testa a lu carcagnu,
La spiaggia è pupulata di tanti cristiani
bruciati di lu suli ca parunu africani.
Ci su l'amiricani, li tedeschi e l'inglisi
passianu in custumi macari 'ndo paisi
A uni semu arrivati signori mei, macari in custumi si passia 'ndi certi paisi, comu nin s'affruntunu certuni
Sintiti oggi c'è u cinima d'estati
Ci su certi fimmini cu la testa malata,
si vasanu cu l'omini macari 'nda la strata
si vasanu e si strincinu nun sintunu virgogna
ni cuminammu peggiu da villa di Bologna.
Ci sunu vicchiareddi, vidennu sti scinati
dicunu guarda ddocu unni semu arrivati.
I vecchi pensanu a la vita che facivanu a vint'anni
e troppu dispiaciuti diciunu: Biata la gioventù
Chiddu chiù vecchiu dici: Ma chi vulemu fari
ormai semu vecchi ni tocca taliari.
Biati li picciotti sta vita ci cummeni
nuatri a ddi tempi non vistumu stu beni.
Sidd'erumu picciotti cu sti signuruneddi,
facevumu battaglia talia quantu si beddi.
I vecchi diciunu: nun putissimu aviri vint'anni,
non ci turnammu chiù a vint'anni, cunpareddu.
Li vicchiastreddi diciunu: Biata a gioventù,
la nostra canniledda lustru nun ni fa chiù.
Cunsidirannu, diciunu, lassamuli spassari,
nuatri arritiramuni, vajemuni a curcari
I vecchi si va curcunu prestu anu ragiuni mischini
leggiu, leggiu, cu li jammi ca ci tremanu
s'arritiranu a casa.
e pensanu ca è troppu bella a vita di vint'anni
I picciotti inveci nun si va curcunu prestu
fannu a nuttata e nun ci fanu 'mprissioni.
Marciannu di stu passu sa unni va a finiri
sta giuventù muderna 'nda luna voli jiri
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