La vita di Vito Santangelo
raccontata da PLACIDO SERGI in un articolo in Internet http://www.paternogenius.com/pagine/Placido%20Sergi/pagine/TraTradizione%20e%20personalit%C3%A0%20nei%20cantastorie%2060.htm
Nato il 10 agosto 1938, Vito Santangelo è il più giovane dei cantastorie di Paternò. Contrariamente a quasi tutti i suoi colleghi, ha seguito un regolare corso scolastico ed ha ottenuto la licenza elementare.
Santangelo, che faceva il bracciante, si accostò al mondo dei cantastorie attraverso la musica leggera; infatti, spesso da ragazzo, quando sulle piazze di Paternò capitava qualche gruppo di canzonettisti, si offriva di cantare come dilettante qualche canzone.
In seguito, all'età di 17-18 anni, iniziò la sua carriera di cantastorie assieme a Paolo Garofalo e, girando con lui, apprese sia la tecnica dei versi (1), sia quella della chitarra (ma Santangelo era stato anche per un mese a scuola di chitarra da un maestro di musica di Paternò).
Nel 1957, quando ancora girava con Garofalo, si recò a Gonzaga per il primo Congresso Nazionale dei Cantastorie; quell'anno fu vincitore Busacca. L'anno successivo, ad appena 20 anni, benchè fossero presenti sia Busacca che Orazio Strano, Santangelo fu proclamato
« Trovatore d'Italia »; nel 1964 fu di nuovo proclamato « Trovatore d'Italia », ma con una « storia » di Buttitta. La serie dei premi conseguiti da Santangelo si chiude con un terzo posto che egli ha ottenuto nel recente concorso di Palermo, avente come tema l'arrivo del primo uomo sulla luna; egli però cantò una storia di Buttitta, benchè in precedenza ne avesse preparata una sua.
Santangelo, che ha anche partecipato a spettacoli teatrali, durante le sue esibizioni in piazza usa spesso il play-back e ne è accanito difensore.
Intorno a questo sistema è sorta, nell'ambiente dei cantastorie paternesi, una polemica, poichè il play-back favorisce coloro che spacciono come propri i dischi incisi da altri.
Alcuni cantastorie, come Rinzino, si servono abitualmente del play-back, mentre Busacca mi ha dichiarato polemicamente che, finchè avrà voce, sarà lui a cantare sulle piazze. D'altra parte Santangelo pensa che fare ascoltare i dischi sia una necessità, perchè, dovendosi vendere i dischi, sono proprio questi che il pubblico vuole ascoltare, piuttosto che la viva voce del cantastorie; il pubblico, insomma, vuole controllare la merce che sta per comprare.
Naturalmente il cantastorie deve accompagnare la « storia » con le spiegazioni in prosa e con la mimica; inoltre Santangelo, per esempio, a volte canta lui stesso in piazza, ma per una sua soddisfazione e per tenersi in esercizio, non perchè sia conveniente: dopo la sua esecuzione, egli deve fare ascoltare di nuovo la « storia » incisa sul disco.
Le « storie » di Santangelo trattano sempre di una « offesa » che viene lavata con uno o più omicidi.
Santangelo stesso ha colto con acutezza il motivo per cui le « storie » di questo tipo sono gradite al pubblico.
Anche se il popolano nella vita non ama il delitto, egli spesso è costretto a subire delle ingiustizie; quindi gli piace ascoltare una storia in cui la giustizia trionfi, chi ha ragione abbia la meglio.
In fondo, è ciò che Gramsci ha detto, evidentemente in ben altri termini, sulla fortuna del romanzo d'appendice tipo « Conte di Montecristo» (2). In questo caso il pubblico dei cantastorie ammette l'omicidio, anzi lo vuole, lo esige; se una storia finisse, per esempio, col perdono della moglie fedifraga, probabilmente non avrebbe successo.
Il pubblico rifiuta l'omicidio se esso è stato commesso per danaro.
Naturalmente, anche se l'eroe si è vendicato giustamente, deve essere punito per il male che ha fatto: o finisce in carcere (e spesso nel carcere muore di pena), o si suicida o muore di morte violenta.
Le « storie » di Santangelo si presentano formalmente più compatte di quelle di altri cantastorie paternesi; non vi sono infatti « seconde voci » e « canzuna ».
Ma Santangelo spesso si abbandona a commenti e a descrizioni. Si vedano, ad esempio, nella « storia » « Lu figghiu carnifici », le due sestine che commentano il matricidio che Turiddu, l'eroe della « storia », dovrà poi vendicare:
La matri è una, e campa 'nta li spini
e di la vucca si leva lu pani
ppi darlu a li so figghi, e'nta li vini
sangu non n'havi e penza all'innumani
comu a li figghi putiri sfamari
e si distrudi ppi farli campari.
La matri non si pò mai scurdari,
ca'ppi li figghi simporta turturi;
perciò li figghi gioia ci-ana-ddari,
pirchì la matri è lu cchiù granni amuri...
Naturalmente questi indugi sono molto pericolosi in quanto rischiano di sviare l'attenzione del pubblico.
Eppure, quasi per contrasto, Santangelo ha saputo creare in molte sue « storie » una notevole « suspence », che si può, ad esempio, notare in questa stessa storia di « Lu figghiu carnifici » e in « Barbara Pinu ».
Santangelo è forse l'unico dei cantastorie di Paternò che abbia saputo sollevare la cosiddetta « barzilletta » dai facili doppi sensi sessuali all'espressione di un notevole contenuto satirico. Tipica in questo senso è « Lussu e cambiali », caratteristica espressione di uno spunto antifemminista: le donne, con le loro spese pazze, conducono alla rovina il povero marito.
Il motivo ha avuto successo, se Santangelo ha creato « Lu latru ppi lussu e cambiali », in cui il marito va a finire in galera sempre per pagare i capricci della moglie
Naturalmente nel repertorio di Santangelo non mancano le solite scenette a base di doppi sensi, come « L'autisti d'oggi », che riprende uno spunto già usato dai cantastorie settentrionali (3). Alcuni versi di « L'autisti d'oggi » sono finiti senza alcun mutamento in « La guerra di l'autisti », così come alcuni versi di « Lussu e cambiali » si ritrovano in « La giuvinutù muderna »; il che dimostra come queste composizioni siano in genere considerate cose minori e di poco conto.
Molte « storie » di Santangelo presentano incertezze e qualche lieve incongruenza; con ogni probabilità, egli deve ancora dare il meglio di sè.
Una delle composizioni più interessanti di Santangelo è « La storia di Barbara Pinu », in quarantuno sestine di endecasillabi; risale al 1957 e la vicenda di essa è fantastica. La composizione si apre con il richiamo al pubblico (anche Santangelo non usa mai la « protasi » d'argomento religioso):
Quannu mi fermu, prestu mi priparu,
l'artuparlanti appizzu nta lu muru
e cantu n-fattu ccu lu sciatu amaru,
ca rimuddari fa lu cori duru;
e suddu mi scutati, o me signuri,
vi raccuntu stu fattu di duluri.
Subito dopo, Santangelo ci presenta la protagonista della vicenda, Barbara Pinu, una povera orfanella che vive con la nonna. Una notte, le appare in sogno la madre che le detta una schedina del totocalcio. Barbara, giocata la schedina, vince puntualmente parecchi milioni; grandissima è la gioia sua e della nonna:
So nanna di la gioia no raggiuna,
ma Barbaredda chiangeva, la mischina;
pinsannu a so matruzza e a la furtuna,
si cummuvivu dda figghia curina.
So nanna cci diceva: « Gioia mia,
non ciangiri; cca ci voli alligna ».
Barbira dissi: « Sì, nannuzza mia,
iu chiangiu, pirchì provu tanta gioia;
nanna, iu Vogghiu stari nsemi a ttia,
pirchì luntanu, sula, sentu noia ».
C ussì Barbira Pinu divintau
ricca, e lu palazzu s'accattau.
Barbara, quindi, ha realizzato il sogno delle classi povere con l'acquisto di una casa.
Ma un suo cugino, attirato dal danaro, comincia a insinuarsi nell'animo di lei; infine, divenuto suo fidanzato, le ruba l'onore e il danaro e fugge in Francia. La nonna scopre il furto e Barbara corre a denunciare il malfattore:
Povira figghia, mmenzu lu duluri
lu furtu prestu va a denunziari;
lu marisciallu ccu tantu fururi
certu ca fici chiddu ca potti fari;
ma ddu vigliaccu, vili, scialaratu,
lu nomu e lu cugnomu s'ha cangiatu.
Tutte le ricerche sono, quindi, vane, ma un giorno un amico, che torna dalla Francia, informa Barbara di avere visto il malvagio cugino che ora è proprietario di una sala di toletta.
Barbara, truccatasi « di vecchia », va in Francia, si reca nella sala di toletta del cugino e si fa fare la permanente:
Lu sangu ci ugghieva ddi mumenti,
pinzannu ca dda c'era ddu birbanti,
ma, quannu tirminò la pirmanenti,
si priparò e si livò li nguanti.
Dopu ci dissi: « Quant'ha-pavari,
ca iu vi dugnu quantu v'aie-ddari ».
Ddu dilinguenti, friscu a lu parrari,
dissi: « E' na pirmanenti di signuri,
su cincucentu franchi ca m'ha-ddari ».
Barbara dissi: « Pavimi l'onuri! ».
Il vile cugino riconosce Barbara e le chiede pietà, ma essa, estratta una pistola, lo uccide. Viene arrestata e processata, ma il suo « delitto d'onore » trova comprensione presso i giurati che la condannano a pochi anni di carcere; essa muore però ugualmente di pena e di dolore prima di potere scontare la condanna:
Chiangennu notti e ghiornu, criatura,
e non mangiannu di iurnati nteri,
mischina, ci finiu n-sipultura.
Cchi funirali, quanta genti c'era!
Appi fortuna e svintura macari
e a so matruzza n-celu iu a truvari.
La « storia » fu composta agli inizi della carriera del nostro cantastorie, e, quindi, presenta qualche incongruenza e ingenuità; per esempio, il modo con cui Barbara viene a conoscenza del rifugio del seduttore e quello con cui riesce ad introdursi presso di questi (truccata da vecchia!); senza contare che non si dice se il processo è avvenuto in Francia o in Italia (in Francia era riconosciuto il delitto d'onore come esisteva nella legislazione italiana? e il processo per un omicidio avvenuto in Francia può essere celebrato in Italia?). Tra l'altro, e questo dimostra l'incertezza dello stesso autore su questa composizione, in una successiva incisione su disco Santangelo ha ridotto le dimensioni della « storia », eliminando parecchie sestine.
Comunque, l'amaro significato sociale che questa vicenda assume (la ricchezza può portare solo sventure e dolori) e la triste fine della protagonista conferiscono un indubbio fascino a questa « storia » semplice e lineare.
Naturalmente le indecisioni dell' autore scompaiono con il tempo; più coerenti sono le « storie » posteriori a questa, come « Lu figghiu carnefici » o « La matri assassina », la composizione con cui Santangelo vinse la « Torre d'oro ».
Vorrei però soffermarmi soprattutto su una composizione del nostro cantastorie risalente al 1964, intitolata « La storia di Micheli Valenti », poichè essa è una delle pochissime opere dei cantastorie di Paternò in cui non sia presente il delitto d'onore.
La « storia » si inizia con l'invito agli ascoltatori:
Avvicinati cu ascutari voli,
ca iu, ccu la me vuci naturali,
vi cantu 'n-fattu ca lu cori doli,
ca ni parraru tutti li giurnali;
li versi iu cci fici prestamenti
e ora vi li cantu a li prisenti.
Il richiamo ai giornali non deve ingannare, giacché l'argomento di questa « storia » e della maggior parte delle altre opere di Santangelo è, come mi ha confermato lui stesso, completamente fantastico.
Al solito, alla prima sestina segue la presentazione dei personaggi:
Vi vegnu a diri ca Petru Valenti
faceva di misteri lu braccianti;
si la passava 'm-pò discretamenti,
ma sacrifici ni faceva tanti:
aveva lu giardinu a mezzadria
e, travagghiannu, dda si la facia.
Era spusatu ccu Rosa Scalia,
ca ppi la vita so era la gioia
e ppi st'amuri riccu si sintia;
la vita la passava senza noia.
Aveva 'n-figghiu sulu, sfurtunatu,
di vintun'anni, Micheli chiamatu.
Michele è fidanzato con Maria Ferlito; ma Carmelino Branti, che aveva chiesto Maria in moglie ed era stato respinto, avanza assurde pretese su di lei, e una sera, spinto dalla gelosia, affronta Michele.
Carmelino estrae un coltello, minacciando Michele; questi cerca di difendersi ed infine è costretto ad uccidere l'avversario; una guardia notturna lo arresta immediatamente.
A questo punto Santangelo indugia a riferire il colloquio, che Michele e il padre hanno in carcere, e il dolore di Maria, la fidanzata, alla notizia dell'arresto.
Ma i problemi pratici incalzano: mancano i danari per pagare l'onorario di un buon avvocato che difenda Michele.
Perciò Pietro si reca dal padrone dell'agrumeto, che ha a mezzadria, e gli chiede di venderne le arance. Il padrone acconsente, purché la vendita avvenga senza suo danno finanziario.
Un commerciante va a valutare l'agrumeto, ma il padrone ritiene troppo basse le sue offerte, ed offre al padre di Michele di comprare lui le arance (caso previsto dal codice della mezzadria).
Pietro accetta, ma il padrone « vigliaccu, sfruttaturi, omu boia », medita già un inganno; con l'aiuto del figlio, un avvocato « bruttu di cori e di facci pulitu », prepara un contratto, in cui Pietro rinuncia alla mezzadria. A questi, che è analfabeta (« non sacciu littra », dirà in seguito), viene fatto credere che egli vende soltanto le arance.
Frattanto si giunge al processo di Michele e questi, difeso da un ottimo avvocato, viene condannato a soli otto anni di carcere.
Un giorno il padre di Michele, pieno di tristezza per la sorte del figlio, si reca nel « giardinu » che ha a mezzadria, ma il padrone, rivelandogli il vero contenuto del contratto, lo scaccia. Pietro se ne va, minacciando di morte il padrone:
Petru gridava: « Zzoccu dicu è veru;
non sacciu littra e si -nn'apprufittaru! »
Cci dissi a lu patruni: « Munzigneru,
Vogghiu la mizzarria, 'nnunca vi sparu! ».
Ddocu cci -arrispunniu lu patruni;
« Vaitivinni, omu 'mbriacuni ».
Petru cci dissi: « Vili lazzaruni,
nascisti ppi mbrugghiari cristiani,
sfacciatamenti vuliti raggiuni,
ma tutti sti minzogni sunnu vani;
la mizzaria a mia, mi l'ata-ddari
e lu cuntrattu si divi strazzari ».
Dopo qualche giorno, Pietro si reca in casa del padrone per far distruggere il contratto con cui era stato ingannato; i due vengono alle mani e Pietro, per uno spintone del padrone, precipita per le scale e muore.
Il cantastorie commenta con amarezza la fine di Pietro:
Amara quannu c'è la mala sorti!
Si va truvannu nta tutti li parti,
pirchì ovunqui ci sunu genti storti,
ca fannu mali e poi ammazzunu sparti.
Lu poviru Pitrinu, svinturatu,
ccu tutta la raggiuni fu ammazzatu.
Una cameriera ha assistito al fatto e il padrone le dà centomila lire, perchè testimoni, invece, che la morte di Pietro è stata causata da una disgrazia.
Michele, essendo venuto a conoscenza della morte del padre, una notte sogna che questi gli chiede vendetta. Risvegliatosi, promette a se stesso che lo vendicherà.
Passano gli anni, e Michele esce di prigione e riabbraccia la madre e la fidanzata che, fedele, lo ha aspettato. Dopo poche settimane, « ppi vnluntà di lu Patri Divinu », il padrone dell'agrumeto, sospettando di un furto la serva, che era stata presente alla morte di Pietro, la licenzia; questa, per vendicarsi, rivela a Michele la verità sulla morte del padre.
« Cu fa mali, ricivi sempri mali », dice il nostro cantastorie; quindi Michele si prepara ad uccidere gli assassini di suo padre.
A Carnevale, Michele entra, mascherato, in casa del padrone e comincia a divertire tutti con i suoi lazzi; tutti si chiedono chi sia celato sotto quella maschera così buffa, e anche il padrone, che non sa che quella maschera « era la morti, misa a lu so latu ». Infatti, ad un tratto, Michele si toglie la maschera, estrae una pistola ed uccide il padrone e suo figlio; poi si costituisce.
Segue il pianto della fidanzata e della madre di Michele:
La zita d'iddu chiangi a perdisciatu:
persi n'autra vota lu so zzitu;
forsi non era statu distinatu
di essiri ppi sempri so maritu.
Ma idda aspetta ancora a Michilinu
e prega a la Madonna di cuntinu.
Ma cu chianci di cchiù, a chiantu chinu,
è dda povira matri, ca figghiu unu,
unu sulu n'avia e lu distinu
si lu purtau 'n-galera.....
La « storia » si conclude con la morale, in cui il cantastorie consiglia di evitare le liti.
Questa composizione rappresenta, come dicevo, un caso piuttosto raro nella produzione di Santangelo e dei cantastorie di Paternò in generale.
Una volta tanto, la « storia » non si regge su un tradimento coniugale; anche se lo spunto della vicenda è dato da un delitto d'onore, l'interesse vero della « storia » si accentra sui problemi sociali (il sistema della mezzadria, le prepotenze padronali).
E si tratta di problemi sociali che non si perdono nel vago, ma si riferiscono ad una situazione ben precisa, cioè a quella di Paternò, centro di produzione agrumaria, nella cui zona la mezzadria è molto diffusa; Santangelo è nato e cresciuto a Paternò, ed è quindi naturale che, con un processo di concretizzazione tipicamente popolare, si sia occupato dei problemi a lui più vicini.
La presenza di questi problemi e il taglio drammatico, che ad essi dà Santangelo, fanno di questa « storia » una delle cose più interessanti del nostro cantastorie, anche se probabilmente, proprio per gli interessi sociali un po' troppo scoperti, essa non ebbe molto successo.
Successo grandissimo hanno invece sempre avuto le « barzilletti » di Santangelo, soprattutto per gli spunti satirici e di viva attualità, che vi si trovano; proprio per questi spunti Santangelo è oggi, a mio parere, il migliore autore di « barzilletti » fra i cantastorie di Paternò.
Si leggano, ad esempio, le prime quartine di « Lussu e cambiali », una « barzilletta » del 1960:
Li fimmini di st'ebbica
pigghianu lu cumannu;
all'omu, comu sceccu,
si lu vanu arrinannu.
Ci sunu tanti fimmini
assai viziusi,
firmunu cambiali
e vestunu lussusi.
E suddu lu maritu
lussu non ci fa ffari,
ci dicinu: « Sta attentu,
a me non t'ha-ncugnari! ».
E così « ccu l'armi so putenti » ottengono la resa del povero marito.
E quannu s'arrinnutu,
vasuna 'n-quantitati,
però all'innumani
cambiali firmati!
.............................................................
Iddi non si frastornunu,
e chistu è naturali,
ma 'n-veci lu maritu
si nzonna i cambiali.
Amara lu maritu
ca sbagghia la muggheri!
Inveci d'iri avanti,
mischinu, va nnarreri.
Peccato che dopo queste quartine lo spunto d'attualità si esaurisca, e Santangelo si perda in divagazioni sulle... libertà che i fidanzati d'oggi si prendono anche per le strade.
(1) Come vedremo, Garofalo non è compositore di « storie » o ne ha composto appena qualcuna; quindi il tirocinio poetico di Santangelo si svolse sotto la guida di Garofalo, ma soprattutto su testi di Pietro Parisi e Ciccio Busacca.
(2) A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale, Torino, 1952, p. 108; sulla ricerca gramsciana intorno al romanzo popolare si veda: S. LO NIGRO, ANTONIO GRAMSCI e la letteratura popolare, Firenze 1957, « Lares », anno XXIII, fasc. I-II, Gennaio-giugno 1957.
(3) R. LEYDI, Cantastorie, in « La piazza », Milano 1959